Oggi si è celebrata la Giornata della Memoria...Il ricordo delle vittime della cieca ferocia nazista, nella sua più "alta" e "profonda" sostanza razzista. Questo tragico evento, che ha segnato l'umanità, riassume il significato più profondo di quel "pensare" e di quel "sentire" nazista. E' stato l'epilogo a cui necessariamente conducono i fascismi e i nazismi.
Il nazismo con l'Olocausto si presentava al mondo come ciò che realmente esso è. La più accecante perversione antimorale; il precipizio di ogni dignità umana; lo svuotamento di ogni valore sociale e umano. Nichilismo e sadismo, figli del male più banale.
Il popolo ebraico, massacrato da secoli in nome anche di una fede, come quella cristiana, che dovrebbe avere fra i suoi presupposti l'amicizia universale fra gli uomini, con l'Olocausto ha raggiunto l'apice del suo sacrificio.
Che siano, forse, troppo spesso avvolti nel mito, e coloriti di fantasia, i racconti di quella abominevole strage di innocenti può anche risultar vero, ma ciò in tal caso dipenderebbe dall'incapacità dell'uomo di raccontare a se stesso i suoi crimini...perchè la memoria presuppone che si sia capito ciò che si ricorda, e quel crimine immenso che fu per l'umanità il nazionalsocialismo, difficilmente si riesce a capire, e quindi difficilmente lo si ricorda nel modo esatto.
Ma ciò che è chiesto a noi, io credo, come diceva Pasolini, è un giudizio interamente indignato, non quindi un'attività di ricostruzione storica. Quest'ultima è compito degli storiografi.
Per questo sono e restano, come le ha definite il Presidente della Camera Gianfranco Fini, infami le dichiarazioni del Vescovo della Chiesa cattolica monsignor Richard Williamson, da poco riammesso da Papa Benedetto XVI alla piena comunione con Pietro. Suscitano allarme e devono preoccupare l'intera società civile che i cristiani abbiano ,come molti islamici, alla lora guida dei terroristi. Gli imam che incitano all'odio vengono espulsi dai paesi civili. E cosi, forse, dovrebbe accadere con monsignor Williamson. Che la Chiesa cattolica non lo scomunichi è un problema della Chiesa cattolica (ognuno all'interno del proprio giardino può tenere le piante più velenose che ritiene opportuno a proprio danno tenere); certo è che gli Stati democratici non possono riconoscere alcun diritto a monsignor Williamson di esercitare al loro interno questa singolare libertà di espressione, che libertà non è.
Sono e restano, quindi, prima di tutto una falsità le dichiarazioni del presule lefebrviano, poi un'infamia, di cui prendere atto, per la Chiesa cattolica; ma soprattutto, esse sono uno scandalo per l'intera comunità internazionale degli Stati dei popoli liberi.
In ultimo meritano attenzione le parole del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Egli ha detto questa mattina che la condanna, necessaria, dell'Olocausto non impone di non poter criticare il Governo israeliano. Ciò è giusto ed elementare. L'antisemitismo è un discorso, essere oppositori del Governo israeliano è un altro (molti icittadini israeliani non hanno votato e sono tuttora oppositori di quel Governo). E altro ancora è essere antisionisti.
Io non credo si abbia il diritto di essere antisionisti, come non si debba avere il fanatismo di essere sionisti. Si deve piuttosto rispettare la sovranità di un popolo come quello israeliano. E' per questo che le critiche al Governo israeliano, quando assumono connotati antisionisti se non antisemiti, devono essere ritenute inaccettabili. Sarà ovvio ma ricordo ancora una volta che il popolo israeliano è formato per lo più dai nipoti di coloro che morirono nei campi di concentramento. E' la realizzazione del sogno e della fede che ha tenuto in vita quegli uomini in quei luoghi di morte che furono i lager. Ciò non va ignorato. Soprattutto dai nipoti di quei carnefici. O dai nipoti dei coetanei di quei carnefici. Il senso di colpa dell'Europa, quindi, sarà pure una "grande ipocrisia", ma è da parte di noi europei un atto dovuto.
Il nazismo con l'Olocausto si presentava al mondo come ciò che realmente esso è. La più accecante perversione antimorale; il precipizio di ogni dignità umana; lo svuotamento di ogni valore sociale e umano. Nichilismo e sadismo, figli del male più banale.
Il popolo ebraico, massacrato da secoli in nome anche di una fede, come quella cristiana, che dovrebbe avere fra i suoi presupposti l'amicizia universale fra gli uomini, con l'Olocausto ha raggiunto l'apice del suo sacrificio.
Che siano, forse, troppo spesso avvolti nel mito, e coloriti di fantasia, i racconti di quella abominevole strage di innocenti può anche risultar vero, ma ciò in tal caso dipenderebbe dall'incapacità dell'uomo di raccontare a se stesso i suoi crimini...perchè la memoria presuppone che si sia capito ciò che si ricorda, e quel crimine immenso che fu per l'umanità il nazionalsocialismo, difficilmente si riesce a capire, e quindi difficilmente lo si ricorda nel modo esatto.
Ma ciò che è chiesto a noi, io credo, come diceva Pasolini, è un giudizio interamente indignato, non quindi un'attività di ricostruzione storica. Quest'ultima è compito degli storiografi.
Per questo sono e restano, come le ha definite il Presidente della Camera Gianfranco Fini, infami le dichiarazioni del Vescovo della Chiesa cattolica monsignor Richard Williamson, da poco riammesso da Papa Benedetto XVI alla piena comunione con Pietro. Suscitano allarme e devono preoccupare l'intera società civile che i cristiani abbiano ,come molti islamici, alla lora guida dei terroristi. Gli imam che incitano all'odio vengono espulsi dai paesi civili. E cosi, forse, dovrebbe accadere con monsignor Williamson. Che la Chiesa cattolica non lo scomunichi è un problema della Chiesa cattolica (ognuno all'interno del proprio giardino può tenere le piante più velenose che ritiene opportuno a proprio danno tenere); certo è che gli Stati democratici non possono riconoscere alcun diritto a monsignor Williamson di esercitare al loro interno questa singolare libertà di espressione, che libertà non è.
Sono e restano, quindi, prima di tutto una falsità le dichiarazioni del presule lefebrviano, poi un'infamia, di cui prendere atto, per la Chiesa cattolica; ma soprattutto, esse sono uno scandalo per l'intera comunità internazionale degli Stati dei popoli liberi.
In ultimo meritano attenzione le parole del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Egli ha detto questa mattina che la condanna, necessaria, dell'Olocausto non impone di non poter criticare il Governo israeliano. Ciò è giusto ed elementare. L'antisemitismo è un discorso, essere oppositori del Governo israeliano è un altro (molti icittadini israeliani non hanno votato e sono tuttora oppositori di quel Governo). E altro ancora è essere antisionisti.
Io non credo si abbia il diritto di essere antisionisti, come non si debba avere il fanatismo di essere sionisti. Si deve piuttosto rispettare la sovranità di un popolo come quello israeliano. E' per questo che le critiche al Governo israeliano, quando assumono connotati antisionisti se non antisemiti, devono essere ritenute inaccettabili. Sarà ovvio ma ricordo ancora una volta che il popolo israeliano è formato per lo più dai nipoti di coloro che morirono nei campi di concentramento. E' la realizzazione del sogno e della fede che ha tenuto in vita quegli uomini in quei luoghi di morte che furono i lager. Ciò non va ignorato. Soprattutto dai nipoti di quei carnefici. O dai nipoti dei coetanei di quei carnefici. Il senso di colpa dell'Europa, quindi, sarà pure una "grande ipocrisia", ma è da parte di noi europei un atto dovuto.
1 commento:
Condivido tutto a parte che il senso di colpa debba renderci acritici. La violenza rimane violenza a prescindere dalla giustificazione, e va ad alimentare l'odio a cui quella violenza cerca di essere monito e freno. Come ci permettiamo di deprecare Hamas, dovrebbe esserci concessa la libertà anche di deprecare il governo israeliano quando a nostro giudizio sbaglia. In fondo siamo forse meno colpevoli nei confronti dei palestinesi di quanto lo siamo con il popolo ebraico? Per far tacere i nostri sensi di colpa e ripianare i nostri errori gli abbiamo strappato la terra per darla ad altri: perchè non li abbiamo trattati con la stessa violenza che abbiamo riservato per secoli al popolo ebraico hanno meno diritto?
Mai niente potrà risarcire il popolo ebraico delle sofferenze patite, tanto meno fare una carneficina dei propri vicini che gli attiri addosso ancora più odio.
A parole del governo israeliano come quelle di David Grossman vorrei applaudire:
"Come le volpi del racconto biblico di Sansone, legate per la coda a un'unica torcia in fiamme, così noi e i palestinesi ci trasciniamo l'un l'altro, malgrado la disparità delle nostre forze. E anche quando tentiamo di staccarci non facciamo che attizzare il fuoco di chi è legato a noi - il nostro doppio, la nostra tragedia - e il fuoco che brucia noi stessi. Per questo, in mezzo all'esaltazione nazionalista che travolge oggi Israele, non guasterebbe ricordare che anche quest'ultima operazione a Gaza, in fin dei conti, non è che una tappa lungo un cammino di violenza e di odio in cui talvolta si vince e talaltra si perde ma che, in ultimo, ci condurrà alla rovina.
Assieme al senso di soddisfazione per il riscatto dello smacco subito da Israele nella seconda guerra del Libano faremmo meglio ad ascoltare la voce che ci dice che il successo di Tsahal su Hamas non è la prova decisiva che lo Stato ebraico ha avuto ragione a scatenare una simile offensiva militare, e di certo non giustifica il modo in cui ha agito nel corso di questa offensiva. Tale successo prova unicamente che Israele è molto più forte di Hamas e che, all'occasione, può mostrarsi, a modo suo, inflessibile e brutale.
Allo stesso modo il successo dell'operazione non ha risolto le cause che l'hanno scatenata. Israele tiene ancora sotto controllo la maggior parte del territorio palestinese e non si dichiara pronto a rinunciare all'occupazione e alle colonie. Hamas continua a rifiutare di riconoscere l'esistenza dello Stato ebraico e, così facendo, ostacola una reale possibilità di dialogo. L'offensiva di Gaza non ha permesso di compiere nessun passo verso un vero superamento di questi ostacoli. Al contrario: i morti e la devastazione causati da Israele ci garantiscono che un'altra generazione di palestinesi crescerà nell'odio e nella sete di vendetta. Il fanatismo di Hamas, responsabile di aver valutato male il rapporto di forza con Tsahal, sarà esacerbato dalla sconfitta, intaserà i canali del dialogo e comprometterà la sua capacità di servire i veri interessi palestinesi.
Ma quando l'operazione sarà conclusa e le dimensioni della tragedia saranno sotto gli occhi di tutti (al punto che, forse, per un breve istante, anche i sofisticati meccanismi di autogiustificazione e di rimozione in atto oggi in Israele verranno accantonati), allora anche la coscienza israeliana apprenderà una lezione. Forse capiremo finalmente che nel nostro comportamento c'è qualcosa di profondamente sbagliato, di immorale, di poco saggio, che rinfocola la fiamma che, di volta in volta, ci consuma.
È naturale che i palestinesi non possano essere sollevati dalla responsabilità dei loro errori, dei loro crimini. Un atteggiamento simile da parte nostra sottintenderebbe un disprezzo e un senso di superiorità nei loro confronti, come se non fossero adulti coscienti delle proprie azioni e dei propri sbagli. È indubbio che la popolazione di Gaza sia stata "strozzata" da Israele ma aveva a sua disposizione molte vie per protestare e manifestare il suo disagio oltre a quella di lanciare migliaia di razzi su civili innocenti. Questo non va dimenticato. Non possiamo perdonare i palestinesi, trattarli con clemenza come se fosse logico che, nei momenti di difficoltà, il loro unico modo di reagire, quasi automatico, sia il ricorso alla violenza.
Ma anche quando i palestinesi si comportano con cieca aggressività - con attentati suicidi e lanci di Qassam - Israele rimane molto più forte di loro e ha ancora la possibilità di influenzare enormemente il livello di violenza nella regione, di minimizzarlo, di cercare di annullarlo. La recente offensiva non mostra però che qualcuno dei nostri vertici politici abbia consapevolmente, e responsabilmente, afferrato questo punto critico.
Arriverà il giorno in cui cercheremo di curare le ferite che abbiamo procurato oggi. Ma quel giorno arriverà davvero se non capiremo che la forza militare non può essere lo strumento con cui spianare la nostra strada dinanzi al popolo arabo? Arriverà se non assimileremo il significato della responsabilità che gli articolati legami e i rapporti che avevamo in passato, e che avremo in futuro, con i palestinesi della Cisgiordania, della striscia di Gaza, della Galilea, ci impongono?
Quando il variopinto fumo dei proclami di vittoria dei politici si dissolverà, quando finalmente comprenderemo il divario tra i risultati ottenuti e ciò che ci serve veramente per condurre un'esistenza normale in questa regione, quando ammetteremo che un intero Stato si è smaniosamente autoipnotizzato perché aveva un estremo bisogno di credere che Gaza avrebbe curato la ferita del Libano, forse pareggeremo i conti con chi, di volta in volta, incita l'opinione pubblica israeliana all'arroganza e al compiacimento nell'uso delle armi. Chi ci insegna, da anni, a disprezzare la fede nella pace, nella speranza di un cambiamento nei rapporti con gli arabi. Chi ci convince che gli arabi capiscono solo il linguaggio della forza ed è quindi quello che dobbiamo usare con loro. E siccome lo abbiamo fatto per così tanti anni, abbiamo dimenticato che ci sono altre lingue che si possono parlare con gli esseri umani, persino con nemici giurati come Hamas. Lingue che noi israeliani conosciamo altrettanto bene di quella parlata dagli aerei da combattimento e dai carri armati.
Parlare con i palestinesi. Questa deve essere la conclusione di quest'ultimo round di violenza. Parlare anche con chi non riconosce il nostro diritto di vivere qui. Anziché ignorare Hamas faremmo bene a sfruttare la realtà che si è creata per intavolare subito un dialogo, per raggiungere un accordo con tutto il popolo palestinese. Parlare per capire che la realtà non è soltanto quella dei racconti a tenuta stagna che noi e i palestinesi ripetiamo a noi stessi da generazioni. Racconti nei quali siamo imprigionati e di cui una parte non indifferente è costituita da fantasie, da desideri, da incubi. Parlare per creare, in questa realtà opaca e sorda, un'alternativa, che, nel turbine della guerra, non trova quasi posto né speranza, e neppure chi creda in essa: la possibilità di esprimerci.
Parlare come strategia calcolata. Intavolare un dialogo, impuntarsi per mantenerlo, anche a costo di sbattere la testa contro un muro, anche se, sulle prime, questa sembra un'opzione disperata. A lungo andare questa ostinazione potrebbe contribuire alla nostra sicurezza molto più di centinaia di aerei che sganciano bombe sulle città e sui loro abitanti. Parlare con la consapevolezza, nata dalla visione delle recenti immagini, che la distruzione che possiamo procurarci a vicenda, ogni popolo a modo suo, è talmente vasta, corrosiva, insensata, che se dovessimo arrenderci alla sua logica alla fine ne verremmo annientati.
Parlare, perché ciò che è avvenuto nelle ultime settimane nella striscia di Gaza ci pone davanti a uno specchio nel quale si riflette un volto per il quale, se lo guardassimo dall'esterno o se fosse quello di un altro popolo, proveremmo orrore. Capiremmo che la nostra vittoria non è una vera vittoria, che la guerra di Gaza non ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità della trappola in cui siamo imprigionati."
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